Il calcio è sicuramente lo sport più diffuso e seguito in Italia. Le partite trasmesse settimanalmente in tv vengono seguite da svariate centinaia di migliaia di spettatori e nel caso dei big match o degli incontri della Nazionale azzurra si arriva a parlare tranquillamente di diversi milioni di tifosi incollati al piccolo schermo. Le strutture degli stadi non sono delle più moderne, ma in alcuni casi, come quello della Roma, i supporters sono disponibili a far registrare puntualmente il tutto esaurito pur di seguire da vicino le gesta della propria squadra del cuore. Anche il mondo delle scommesse sul panorama del calcio fa registrare volumi di centinaia di milioni di fatturato annui secondo i dati sul gioco. Spesso e volentieri il pallone viene demonizzato perché si ritiene che distragga troppo le masse e crei modelli sbagliati, ma a livello giovanile il calcio rappresenta ancora il principale movimento sportivo dello Stivale con oltre 10.000 squadre, per un totale di 1.100.00 calciatori tra uomini e donne.
I social hanno evidentemente rivoluzionato anche il modo di tifare. Se prima ci si radunava la mattina al bar per commentare le partite dell’ultimo weekend, oggi lo si fa soprattutto sul web, dove le varie società possiedono canali ufficiali. Certo, il rischio della lite e della discussione è perennemente dietro l’angolo, ma è innegabile che il modo di fruire del prodotto si è evoluto, rivelandosi anche molto più agevole rispetto a qualche anno fa. Se però prima il calcio rivelava anche un forte potere aggregante, questo si è un po’ disperso nel tempo: sono in tanti, ormai, a seguire le partite da soli, magari attraverso le app delle tv aventi diritti sugli smartphone. In ogni caso, rimane l’obbligo morale da parte delle società di coltivare azioni di responsabilità sociale verso la collettività alla quale si rivolgono, offrendo in buona sostanza servizi adeguati, soprattutto negli stadi che talvolta diventano triste teatro di scontri tra facinorosi.
Nel bene o nel male, il calcio ricopre un ruolo fondamentale nell’intera economia del Paese
Verrebbe da chiedersi a questo punto perché in Italia sia stato proprio questo sport a prevalere sugli altri. Il motivo è presto detto: il calcio è di più facile diffusione, perché necessita di poche attrezzature anche per essere praticato a livello puramente amatoriale. Tutti possono ritrovarsi senza troppi patemi a coltivare la propria passione per il calcio: un particolare che ha finito col rendere i giocatori professionisti dei veri e propri idoli, quasi degli esempi da seguire. Quello dell’identificazione sociale attorno al campione è un comportamento che viene in soccorso soprattutto dei più giovani o dei meno abbienti, che attivano come un meccanismo di difesa nel mutuare i comportamenti di chi ha già raggiunto i massimi livelli. E così il nome stesso di un giocatore diventa fenomeno sociale e il mito di Maradona non viene soppiantato da quello di Messi o Ronaldo nei decenni successivi. Non tutti vedono il calcio come un’occasione di convivialità, purtroppo, ma per molti può significare anche un riscatto sociale.
La figura del calciatore è dunque una delle più controverse in un’analisi socio-economica. I professionisti del settore guadagnano cifre da capogiro, tali da poter coprire le esigenze di una famiglia per più generazioni. Spesso è proprio questo l’aspetto che viene più contestato, anche a livello mediatico, in quanto il calcio sembra sfuggire alle ordinarie gerarchie sociali, che vengono quasi stravolte. In realtà, però, ci sono molti altri dettagli che sfuggono ai più. La vita sportiva del calciatore termina in genere intorno ai 35 anni e chi milita nelle serie minori è costretto praticamente a reinventarsi per provvedere al proprio sostentamento. Non è tutto oro ciò che luccica, insomma. Non a caso il famoso sociologo Francesco Alberoni definì il fenomeno del divismo una “elite senza potere”.
Con l’introduzione della legge Bosman, che ha aperto innumerevoli spiragli al calciomercato, il rapporto tra i tifosi e i giocatori è però cambiato. Sono pochi i calciatori che vengono idolatrati dalle piazze anche diverso tempo dopo il loro ritiro. Se un tifoso rimane legato agli stessi colori per tutta la via, altrettanto non si può dire di chi scende in campo. Non sono affatto pochi gli atleti che mirano candidamente al mero profitto, inimicandosi nel giro di poco tempo quelli che prima erano i loro tifosi più affezionati. No, sotto questo punto di vista il mondo del pallone ha ben poco da insegnare in termini di funzione educativa e sociale.